Gabriele Zarotti

Il mistero del Queens.



 
( Nella malaugurata ipotesi ci aspetti un’altra vita nell’Aldilà, bisognerà cominciare a pensare quali libri mettere in valigia per ammazzare il tempo)

 
 
 
        Refoli di vento muovevano di tanto in tanto le tendine del bow-window. La stanza era in ordine.  Calata in una tiepida penombra primaverile. La radio, sintonizzata sul programma di prosa, stava trasmettendo I Ragazzi Irresistibili. Sprofondato in una poltrona old-america, un uomo sulla cinquantina, occhi socchiusi, un leggero sorriso sulle labbra, sembrava ascoltare, compiaciuto e divertito, alcuni dei dialoghi più acutamente esilaranti che mai penna abbia  partorito.
        Improvvisamente un lampo illuminò a giorno la scena. Poi, in rapida successione, un altro. E un altro ancora. Il fotografo della polizia  bofonchiò qualcosa, girò i tacchi, e se ne andò.  Due mani aprirono una valigetta e, stancamente, meccanicamente, tirarono fuori tutto l’armamentario per procedere ai rilevamenti di rito. Impronte digitali e compagnia discorrendo. Nel frattempo il medico, sfilandosi i guanti di lattice  e volgendo lo sguardo ad un  boccettino scuro che era sul tavolo, sentenziò: - il settimo  suicidio in tre giorni. Di questo passo verrà stabilito un nuovo record. Comunque aspettiamo l’autopsia.
       
        Negli ultimi giorni, il Queens era stato teatro di quel tipo di dipartite che dovrebbero ogni volta portare sul banco degli imputati  un’ intera società.  E la giuria non avrebbe motivo di mostrare né incertezze, né pietà nel pronunciare la sentenza.  Invece, le povere anime che se ne andavano di propria volontà, a meno che non fossero famose, erano circondate dalla più totale indifferenza. E magari dovevano pure subire il biasimo e il malcelato fastidio dei benpensanti. Questa volta però ad attirare l’attenzione fu il numero, il breve arco di tempo, e il fatto che l’area degli accadimenti fosse così circoscritta. Una sorta di riserva degli aspiranti suicidi. Anche se il Queens non poteva certo essere paragonato, per quanto la vita fosse difficile in quegli anni, ad una riserva indiana.
        Il primo cadavere scoperto era stato quello una donna di sessant’anni, trovata nella vasca da bagno, con la testa avvolta in un sacchetto di plastica per alimenti. Il secondo quello di un pittore quarantacinquenne che si era impiccato nello scantinato della sua casa. Il terzo quello di un rappresentante di commercio che si era gassato nel  garage, a bordo di una Lincoln nuova di zecca. Il quarto quello di un’attempata cuoca di uno dei tanti Kentucky Fried Chicken  che appestavano la città. La donna era stata trovata, contrappasso dei contrappassi,  con la testa infilata nel forno della sua cucina. Il quinto quello di un medico che si era sparato in vena una superdose di eroina. Il sesto quello di un vigile del fuoco in pensione che si era buttato dal terzo piano. Il settimo, infine, lo abbiamo appena visto all’inizio del racconto.
        Per un po’ di giorni la morìa parve essersi quietata. Forse cessata. Così almeno si sperò. Poi, una mattina verso le dieci, squillò il telefono del distretto di zona. Una voce trafelata avvertì che Iohn Carmichael.  ex tagliaboschi, ex ebanista, ex  idraulico era, da poco, ex vivo. Fu infatti trovato cadavere nel suo letto dalla donna delle pulizie. Si scoprì, appena il medico legale esaminò il cadavere, stroncato da una dose di sonnifero che avrebbe mandato all’altro mondo tre cavalli. E forse anche due buoi.  E così la lista era salita ad otto. Un vero bollettino di guerra.
        A questo punto il capo della polizia diede fuori di matto. Anche perché gli arrivarono non poche pressioni dall’alto.  Che figura ci avrebbe fatto il Queens se a qualche giornalista fantasioso fosse venuto in mente di  mettere in fila  questa catena di morti, facendo assurgere tutta la zona a una sorta di paradiso dei suicidi? Meglio  approfondire. Per certi versi sarebbe stato preferibile una bella catena di omicidi. O ancora meglio: un bel fifty fifty. Che avrebbe fatto rientrare tutto nella media. Così, sottoposto a tante pressioni, decise di affidare il “Caso degli Otto Casi”  ad un giovane ispettore di belle speranze: James Rolandi, italo americano di Brooklin. Lo fece chiamare nel suo ufficio e, dopo averlo fatto accomodare e avergli offerto un caffè, gli disse: - James, cazzo, credo sia arrivato il tuo momento, ragazzo!
        James, che non era abituato a queste smancerie, specie da quello Yeti del Montana,  cominciò a chiedersi velocemente dove fosse la fregatura. Ma prima che potesse farsi un’idea, il capo proseguì: - James, dicevo, James Rolandi… di certo hai sentito di questa cazzo di storia, di sti  coglioni che non avevano  niente di meglio da fare che eliminarsi. Detto che sono cazzi loro, riposino in pace, amen! pare però che in alto… -  e indicò con  occhi e  indice il soffitto, come chi  è costretto da anni a sopportare e compiacere i capricci e le stranezze dei potenti  - ...in alto, dicevo, gli dà fastidio questa cosa. Mi hanno fatto capire che potrebbe danneggiare il buon nome del Queens, ma soprattutto, diciamoci la verità, sentono bruciare il loro culo. Scricchiolare la poltrona di pelle umana su cui siedono, e dove si ingrassano alle nostre spalle… capisci, ragazzo?   
        James più capiva e più sentiva un fremito fare ping-pong fra le sue natiche. D’altronde di casi interessanti, in cui dimostrare quanto valeva, ancora non ne aveva avuti per le mani. E questo poteva o confermarsi un caso chiuso o chissà… Nella prima ipotesi avrebbe rischiato poco o niente. Nella seconda poteva anche scapparci una promozione. D’altronde mica poteva sottrarsi. Di fronte ad un invito così cortese, non si poteva certo dire di no.
        - Allora, James, tutto chiaro? Siamo d’accordo?  Forza, fai vedere chi sei! Tu sei americano e italiano. E quindi sei più degli altri. Vali per due -  ridacchiò - fatti passare tutto  il malloppo dal vecchio Jack. Poi ficca il naso ovunque. Interroga, Indaga. Rivolta. Sconquassa. Fai, come dite voi a Napoli, un po’ di ammuina. Lassù qualcuno ci guarda. Fammi fare bella figura!   
        Veramente James avrebbe voluto dirgli: - Vecchio pallone gonfiato, non mi hai detto nulla, se non mettermi a parte delle tue paure e delle fibrillazioni di quei papaveri politicanti.   
        Comunque questo era ciò che passava il convento. Il resto sarebbe stato fiato sprecato.
        - Va bene, capo, conti su di me.  
        In quel momento non era riuscito a trovare niente di meglio con cui congedarsi.
        - Ah, dimenticavo, mi servirà una mano… avrei pensato a Bob Freeman. Sa, è un ragazzo sveglio, ha studiato… 
        Il capo rimase un attimo in silenzio, sembrò concentrarsi. Ma James sapeva che la sua zucca non poteva ospitare tanti pensieri nello stesso momento, né tantomeno articolarli. Dopo due lunghi minuti, in cui uno normale avrebbe potuto prendere decisioni fondamentali per l’umanità, disse sorridendo: - Va bene. Tutto quello che vuoi. Anche perché, da questo momento , sei tu a condurre la danza.  Sei tu the man in charge. Hai la mia benedizione! - Ridacchiò.
        E con questo viatico, il nominato James uscì dall’ufficio. Era tardi. Il turno di giorno finito. Rimandò tutto al mattino seguente.  Avrebbe passato una notte tranquilla. E così fu.
       
        L’indomani mattina si svegliò di buonora e, in bagno, mentre si faceva la barba, ripensò al tutto. A mente fredda. Improvvisamete realizzò che… col cavolo non rischiava nulla! Se non avesse trovato qualcosa, qualche pista che avesse dato una svolta al caso, i suoi attributi sarebbero andati a far da trofeo nell’ufficio del capo. La sua carriera distrutta. Ogni sogno si sarebbe infranto. Non avrebbe potuto sposare la sua Betsy. I suoi genitori si sarebbero pentiti delle camicie sudate per mantenerlo alla Columbia. Bisognava mettersi all’opera come mai aveva fatto.
        Arrivato al distretto, si mise subito alla ricerca di Bob Freeman. Lo trovò vicino alla macchina del caffè con in mano un libro. Leggeva molto Bob, soprattutto i classici dell’ottocento. Bob era un giovane di colore. Un negro che, nonostante la sua intelligenza, difficilmente avrebbe fatto strada nella polizia. Eravamo negli anni settanta e, anche se New York non era Dallas, un negro era sempre un negro. Gli piaceva Bob. Era onesto, sincero, e poi lo divertivano le sue citazioni. Quando meno te lo aspettavi saltava fuori con una frase che aveva assimilato attraverso le sue letture. Lo aiutava a sopportare meglio gli aspetti più deteriori dell’ ambiente. La grettezza, l’insensibilità, la corruzione. Bob era la faccia sana dell’America.  La speranza di una nazione. Come lui del resto. Unica differenza, al di là del grado e del colore della pelle, era che James aveva il fiuto di un setter, mentre Bob , con la sua aria tranquilla, sapeva mettere in relazione  i fatti. Come uno scrittore di  gialli. Gli si avvicinò e lo mise al corrente dell’incontro del giorno prima. Bob non ebbe reazioni particolari. Si limitò a dire a bassa voce: - What a spicy meat ball! - Insieme si diressero verso la scrivania di Jack Bronson, l’ispettore incaricato dei casi di suicidio.
        Bronson era un uomo basso, tarchiato.  Dal volto segnato come un bull-dog.  Un incrocio tra James Cagney e Edward G. Robinson. Un poliziotto disilluso, a pochi passi dalla pensione. Sapeva già tutto. Che avrebbe dovuto passare il testimone. Ma non era dispiaciuto. In fondo era un brav’uomo. Uno dei pochi che non si erano fatti corrompere. E poi i suicidi non erano il suo forte.
        - Ecco, qua c’è tutto, compresi i referti delle autopsie.  Naturalmente solo alcuni. Perché, nei casi più evidenti, si è tralasciato di eseguirle. Sai, è un periodo di vacche magre...risparmiano su tutto. Fra un po’ ci razioneranno anche l’aria... Buona fortuna, James. Comunque per un mese mi trovi ancora qui,  inchiodato alla mia scrivania. Nel caso…
        - Grazie Jack, spero non me ne voglia. Non l’ho cercato io l’incarico. Vorrei…
        - Lo so, lo so. -  così dicendo  gli diede una pacca sulla spalla.
        James e Bob si chiusero con tutte quelle scartoffie in una stanza, si tolsero le giacche, si arrotolarono le maniche delle camicie, e si sprofondarono in quelle cartelle. Come due mastini attorno ad un osso apparentemente già spolpato da una muta di cani. Per una settimana, giorno e notte, si blindarono in quella stanza. Uscivano solo per andare a prendere qualcosa da mettere sotto i denti e una scrollatina al gabinetto.  Spulciavano, leggevano, rileggevano, sottolineavano, chiosavano, prendevano appunti, discutevano. Niente. Non sembrava emergere nessun indizio che potesse aiutarli. C’erano solo alcuni fatti che, diciamo così, caratterizzavano il caso: tutte le vittime vivevano da sole, tutte avevano superato da un pezzo la maggiore età, e tutte vivevano nel Queens. L’unica speranza rimaneva tornare sulla scena del crimine, vedere se qualcosa poteva essere sfuggito, ed eventualmente interrogare  nuovamente parenti e amici. E così, alla fine, decisero di fare.
        I luoghi dei tristi eventi erano ancora sigillati. Se ben spremuti, avrebbero  potuto   parlare, fornire ancora qualche utile indizio. Riservare qualche sorpresa. Non erano stati ancora inquinati più di tanto. Cominciarono da Neil Simon. Così Bob aveva battezzato il settimo dipartito. La commedia trasmessa alla radio il giorno del ritrovamento, I Ragazzi Irresistibili, era infatti uno dei capolavori di  questo genio della commedia brillante. Avevano deciso di iniziare da lui perché qualcosa li aveva colpiti: sul volto dell’uomo c’era quel leggero sorriso… Ma forse era normale. Si trattava solo dell’ultimo piccolo, beffardo spasmo di dolore, dato il tipo di veleno. Strapparono i sigilli alla porta ed entrarono. Cominciarono a guardarsi attorno con circospezione. Tutto sembrava come da rapporto. L’ordine, pochi mobili di scarso valore, tra cui una libreria quasi vuota: solo gli elenchi del telefono, una rubrica, qualche vecchio numero di Time Magazine, e una fotografia di gruppo sullo scaffale in basso. Non doveva certo essere un intellettuale, si dissero. Mentre Bob tendeva a scrutare verso l’alto, chissà, forse per una innata tensione alla libertà,  il desiderio di emanciparsi; James era portato a buttare lo sguardo in basso, sui pavimenti, in ogni angolo, come un segugio. E fu così che l’occhio gli cadde sul limite del tappeto verso il bow-window, dove la luce era più forte. Un angolo di un foglio faceva capolino da sotto. Si chinò e lo sfilò. Era una pagina strappata da un libro. Il testo diceva:  Il sole, appena passato il mezzodì, splendeva sul chierico, e ne rendeva nitida la figura, mentre egli si ergeva dalla terra tutta, per sottoporre il suo atto d’accusa al tribunale dell’Eterna Giustizia …  A margine un commento a mano: Le parole uccidono quanto l’indifferenza.  
        - Si tratta di  Hawthorne, La Lettera Scarlatta - commentò Bob, quasi con umiltà. Senza ostentazione. Come se avesse pronunciato un salmo della Bibbia.
        Questo era senza dubbio un elemento nuovo. Ancora non sapevano dove avrebbe condotto. Ma sembrava una sorta di incoraggiamento. Bisognava adesso verificare se la calligrafia era del morto.  Sottoposta a confronto con la sua firma, il perito calligrafo concluse che era un’ abile imitazione. Chi aveva scritto quel commento, e perché aveva tentato di riprodurre la calligrafia del povero Neil, era adesso il mistero da svelare.
        Nel frattempo procedettero al secondo sopralluogo. Da Mrs. American Pye, come Bob aveva ironicamente definito la cuoca gassatasi nel forno. Anche qui tutto era stato lasciato come il giorno del ritrovamento. Anche lo sportello del forno era ancora tragicamente aperto. Una sorta di presentimento portò James a rendere ancora più accurata la sua ricerca. Ad aguzzare ancora di più la sua vista. Il suo fiuto. E finalmente i suoi sforzi furono premiati. Da sotto il frigorifero, in diretta corrispondenza con dei foglietti fissati con una calamita allo sportello, spuntava  un pezzo di carta. Lo sfilò. Si trattava, anche in questo caso, della pagina strappata di un libro. Lesse ad alta voce :…si mise a gridare, ma la sua voce rifiutava di raggiungere i confini della piazza. Disperato, senza smettere di gridare, si buttò a correre attraverso la piazza dritto sulla garitta, presso cui stava un vigile che, appoggiato alla sua alabarda, pareva guardare con curiosità, cercando di rendersi conto che specie di energumeno era quello che gli correva addosso vociando.  Senza esitazione, Bob disse che si trattava di una pagina di Il Cappotto di Gogol. Ed anche qui, a mo’ di chiosa a margine: L’ingratitudine umana è peggio di un colpo in pieno petto. Era difficile pensare fosse una coincidenza. Doveva esserci una relazione fra i due suicidi. A loro scoprirla.
        A questo punto tutti i restanti sopralluoghi furono condotti con lo stesso obiettivo: trovare indizi che mettessero in relazione fra loro gli otto casi. E fu così che rinvennero altre sei pagine strappate.  Con relative note a penna. Da Quattro chiacchiere con la mummia di E.A. Poe; da   Il rosso e il nero  di  Stendhal; da Furore di John Steinbeck; da   Il Castello di  Franz Kafka; da Il 42° parallelo di Dos Passos; per finire con L’uomo senza qualità di Musil. Bingo! Era una firma. Il biglietto da visita del Killer.  Non poteva certo trattarsi di suicidi, a meno che i deceduti non appartenessero tutti ad una setta votata a questa tremenda fine. L’onore del Queens era salvo. Lo Yeti del Montana poteva rilassare i muscoli del suo grosso sedere. James e Bob uscivamo dall’impasse. Adesso dovevano solo risolvere il caso. Un caso di criminalità seriale. Era evidente anche per un bambino.
       
        Cominciarono a parlare con parenti e amici delle vittime  per capire le loro abitudini, le loro frequentazioni. Batterono bar, palestre, circoli… per scoprire se ci fosse un filo che le univa. Che le aveva fatte incontrare. Non emerse niente.  Frugarono nella corrispondenza: niente di niente. Verificarono pure alla compagnia dei telefoni: zero assoluto. Rimanevano sempre le pagine strappate. Bob, che sapeva mettere in fila le cose, non riuscì a trovare nessun nesso fra gli otto libri.  Se non che erano titoli importanti. Ma sicuramente scelti a caso. Erano la firma ai delitti. Una sfida alla polizia.  Quanto ai pensieri a margine, questi sì che dicevano qualcosa.  Sembravano rivelare un malessere, il dramma interiore di chi li aveva scritti. La profonda amarezza di chi si era sentito tradito. Da qualcosa. Da qualcuno.  Non appartenevano al repertorio dei messaggi dei serial killer. Violenti, beffardi, paranoidi e deliranti.  Nel frattempo, James si ripeteva come una litania: - I libri si leggono… si comprano… si vendono…-  Nessuna delle tre attività sembrava appartenere a quei poveretti. Ma se si fossero per un momento messi dalla parte del serial killer? Che tipo di individuo era? Che cosa faceva? Quale scopo poteva averlo condotto in quella zona? Forse un topo di biblioteca? Lentamente un’altra idea si materializzò nella mente di James. Chiamatelo presentimento. Intuizione. E se si fosse trattato di un venditore di libri porta a porta: perché no? Le pagine, al di là dello strappo, come aveva notato Bob, erano perfette. Come prese da libri mai letti.
        Batterono a tappeto tutta la zona, chiedendo agli abitanti se in quel periodo qualche piazzista  avesse suonato alla porta. Nessuno aveva notato niente o non si ricordava.  Strana gente nel Queens: tutti molto riservati e di poche parole. O forse disinteressati alla lettura. Solo una persona, il postino, incontrato per caso, gli disse che si era imbattuto per due o tre  volte in un giovanotto dal fisico atletico, con una pesante borsa di cuoio. Ma non lo aveva visto bene in faccia. In ogni caso valeva la pena  approfondire. Visitarono tutte le società specializzate nella tentata vendita di cibo per la mente. E finalmente, alla sede di  Culture Knocks at Your Door,  gli dissero che il Queens era una delle loro zone. Una di quelle di più difficile penetrazione. In particolare, l’area che li interessava era sta affidata ad un certo Francis Darin. Si trattava di un reduce della guerra del Vietnam che, dopo aver cercato invano, per qualche anno, un impiego decente, aveva accettato quell’incarico per fame. Un lavoro in  genere svolto nei ritagli di tempo da giovani studenti.  Pare che Darin non avesse fissa dimora. Bob avanzò l’ipotesi che frequentasse quelle case dormitorio dove spesso si recavano gli ex reduci senza quattrini.  Sembrava una buona pista. Erano sulle tracce di un sospettato. Da qui in avanti i fatti subirono un’accelerazione.  
       
        Nella stanza c’era odore di bruciato. Francis Darin giaceva disteso sul letto. Con addosso la sua divisa da marine. Era immobile. Sul viso, una maschera di plastica trasparente gli copriva naso e bocca. Era tenuta ferma e aderente da un elastico. Una di quelle mascherine usate nelle sale operatorie per somministrare l’anestesia. Il tubo, un lungo tubo corrugato, conduceva ad una strana macchina rudimentale. Una specie di piccolo forno, ancora caldo.  Francis sembrava dormire. Bob prima lo scosse e, visto che non c’era stata reazione, appoggiò due dita ai lati della carotide. Battito zero. Era morto. Decisamente. James,  nel frattempo, aprì lo sportello di quella strano marchingegno. Un acre odore di carta bruciata invase violentemente le sue narici. Erano le pagine di un libro.  Quasi completamente bruciate. Dal pugno chiuso di Francis sporgeva un lembo di carta. Faticò non poco ad aprirgli la mano. Ma alla fine comparve una specie di palla. La prese, la aprì delicatamente e, dopo aver appoggiato il foglio stropicciato su di un tavolo, lo distese, passandoci e ripassandoci sopra più volte il palmo della mano. Era la pagina di un libro. Bob lesse ad alta voce le prime due righe e disse:  - Dostojevsky, Delitto e castigo. - Fece una lunga pausa, sospirò, e poi aggiunse: - stavolta il libro non l’ha scelto a caso.
        Rovistarono tutta la stanza e trovarono, tra le pagine del mensile dei reduci del Vietnam, lo schizzo di quel mostruoso strumento di morte, di quell’ingegnoso, folle, micidiale “narghilè” con cui, era ormai chiaro, Francis aveva ucciso le sue vittime. Vendicandosi così, nella sua mente devastata da una guerra tremenda, di una società ingrata. Che per sdebitarsi  con lui se l’era cavata con poco: una lettera, una medaglietta, e un miserabile sussidio.  Solo gli ufficiali avevano ricevuto impieghi decenti.  E invece lui, semplice soldato, carne da macello, si era ritrovato a dover raccattare in extremis quel posto precario, datogli  forse per pietà. Piazzare libri presso gente che, novantanove su cento, non gliene fregava niente di leggere, era avvilente.  E così aveva cominciato, giorno dopo giorno, mese dopo mese, a odiare tutti. I libri. Quel lavoro che subiva quotidianamente. I potenziali clienti. Gli editori. Gli autori. Le loro opere. I critici letterari. I politici. Le istituzioni. La società tutta. E nella sua mente ferita si era fatta strada l’idea di vendicarsi.  Uccidere bruciando libri. Libri importanti. Era il massimo. La vendetta estrema. Il suo grido di dolore e di odio profondo e smisurato verso il mondo.  Francis aveva prima ucciso le sue vittime. La carta bruciata nel forno aveva consumato l’ossigeno e tutti quei poveretti erano morti per anossia. Pochi avevano pagato per tutti e per tutto. Dopodiché, per farsi beffe della polizia, aveva inscenato quei suicidi. In pratica aveva ucciso le sue vittime due volte. Se l’indagine fosse stata  superficiale, si fossero fermati alle apparenze, il caso si sarebbe chiuso lì.   Archiviato come semplice suicidio. Ma Francis, nella sua rabbiosa, lucida follia, aveva voluto lanciare la sfida. La sua sfida al mondo. Alla vita. Nel caso le indagini fossero state più meticolose e qualcuno avesse scavato più in profondità, lasciò, nascosta, la sua firma: le pagine strappate con quei commenti. Una specie di roulette russa. Come quella a cui i vietcong costringevano i loro prigionieri. Là, vita e morte dipendevano dal tamburo di un revolver; qui, la probabilità di soccombere era direttamente proporzionale all’abilità degli investigatori. Il biglietto da visita lasciato era la pallottola che avrebbe potuto combaciare con il foro della canna.  Alla  fin fine, tra farla franca ed essere scoperto, il suo cuore desiderava ardentemente la seconda ipotesi. Per mettere fine a quella vita inutile. Che gli aveva elargito generosamente solo paure, umiliazioni e sofferenze.
        James e Bob avevano finito. Il loro compito terminava lì. Il caso era chiuso. Ma non in gloria come tutti si aspettavano. Il grande, macabro show della sedia elettrica non sarebbe andato in onda. L’anchor-man aveva dato forfait.
        L’indomani mattina Il Daily Queens titolava a caratteri cubitali: Otto suicidati e un suicida! Il serial killer si toglie la vita con l’arma del delitto!        
 

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Veröffentlicht auf e-Stories.org am 11.05.2015.

 
 

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